mercoledì 19 settembre 2018

10 motivi per amare i gatti





1. Sono eterni cuccioli
Anche se il nostro micio ha dieci anni, ai nostri occhi sembrerà sempre un cucciolone, per la sua dolcezza ed il suo stile di vita. Inoltre i gatti sono giocherelloni e si divertono con poco!



2. Amano le coccole e chi le fa
Amano farsi accarezzare, coccolare, ma attenzione a non trattarli troppo come degli antistress!!



3. Sono buffi
A volte hanno atteggiamenti che ci spieghiamo difficilmente, come quando vedono una scatola di cartone o il puntino rosso di una luce laser! Ma sono incredibilmente buffi e divertenti.



4. Hanno uno sguardo dolcissimo
il loro sguardo è irresistibile e difficilmente siano in grado di dire “no” ad un micio che ci guarda con i suoi occhioni dolcissimi.




5. Mettono sempre di buon umore
Anche nelle giornate più difficili e quando abbiamo l’umore storto, loro sono accanto a noi e pronti a farci tornare il loro sorriso con la loro silenziosa presenza.




6. Sono ottimi per riscaldarsi d’inverno
Diciamocelo, d’inverno guardare un film sul divano con un micio vicino è un’esperienza unica!



7. Si affezionano alle persone
Anche se generalmente si crede il contrario, diventano molto legati al padrone e ai membri umani della famiglia. Possono anche soffrire molto per la perdita di una persona cara.


8. Sono curiosi e grandi esploratori
Esplorano il mondo circostante, annusano in giro, si nascondono, preparano agguati, corrono su e giù e tutto questo non può che mettere allegria!


9. Sono animali riflessivi e saggi
A volte li vediamo fermi, mentre fissano il vuoto per parecchi minuti. Chissà a cosa pensano, sicuramente si tratterà di qualcosa di molto profondo!



10. Sono dormiglioni e un po’ li invidiamo!
Dormono molto. E quando non dormono si riposano e si rilassano. A volte vorremo anche noi fare una vita da gatto, non sembra poi così male!

 

martedì 18 settembre 2018

"Il Turco", il primo androide della storia



Robot, androidi e macchinari che simulano il comportamento umano sono presenze costanti nei racconti di fantascienza e nei film ambientati del futuro.
Sembra quasi qualcosa di scontato pensare che nei secoli a venire il mondo sarà caratterizzato dalla presenza di automi intelligenti, dotati di una propria coscienza ed autonomia, un po’ come il Sig. Data di Star Treck. Non mancano nemmeno i racconti in cui i robot assumono aspetti negativi, ad imitazione ed esagerazione della malvagità umana, fino a divenire degli spietati assassini e dominatori della terra, a scapito naturalmente della nostra specie. 
Forse ci stiamo anche avvicinando a tutto questo, anche se gradualmente. 

Comunque sia non si deve pensare che l’idea di una macchina umanoide intelligente sia così recente. Già durante il 1700 infatti scienziati, pensatori e inventori all'vanguardia speculavano sulla loro possibile costruzione. E a volte ci provavano anche.
In quel tempo, infatti, le scienze erano in pieno fermento, in tutti i campi. Sembrava che il progresso scientifico fosse inarrestabile. Nelle botteghe degli esperti in meccanica e degli orologiai comparivano congegni meccanici ad ingranaggi sempre più complessi: si trattava di orologi che potevano rappresentare animali, esseri umani oppure soggetti religiosi, tutti dotati di un certo movimento. Il più delle volte si trattava di movimenti rigidi e limitati, ma non mancavano opere più elaborate, in grado di imitare sorprendentemente un movimento naturale.
Molti ritenevano che si trattasse di oggetti fondamentalmente inutili, privi di un loro scopo pratico. Si trattava invece di vere opere di ingegno, che dimostravano fin dove potevano spingersi la mente e le abilità umane, pur senza l’aiuto di motori elettrici, circuiti, computer e programmi informatici.

La nascita di queste macchine conobbe una vera esplosione, e tra gli inventori nacque una forte competizione. Una competizione che aveva come obiettivo anche creare stupore, meraviglia, intrattenimento. Furono allestiti veri spettacoli, spesso anche molto costosi, in cui si esibivano gli automi, divertendo il pubblico con movimenti che fino a poco prima erano ritenuti impensabili. Compivano persino azioni complesse come suonare disegnare, scrivere e suonare il flauto.
Nelle cronache irruppe però un vero e proprio gioiello della tecnologia e dell’ingegno. Almeno all’apparenza. Si trattava del “Turco” o del “Giocatore di Scacchi” dell’ingegnere Wolfgang Von Kempelen (n. 1734, m. 1784) costruito per dilettare l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che come molti nobili dell’epoca era appassionata di magia, illusionismo, pratiche esotiche ed esoteriche.
Il consigliere dell’imperatrice si mise all’opera e dopo parecchi mesi di duro di lavoro, nel 1770, si dichiarò pronto a mostrare la sua invenzione alla regina e al mondo. il pubblico si trovò davanti un pupazzo montato su una cassa di legno, ove era posta una scacchiera. L’automa era vestito con abiti orientaleggianti, proprio per suggerire agli spettatori un’atmosferica magica.

Il pupazzo era capace giocare a scacchi. Non solo, ma era talmente abile ed esperto da poter sconfiggere con favcilità i più importanti e bravi giocatori della corte. Sarebbe stato, insomma, qualcosa di ben paragonabile ai nostri software che riescono a battere persino i campioni.
Il fantoccio e il suo autore girarono per l’Europa, e si dice che la macchina sconfisse persino Napoleone Bonaparte.
Cominciavano così ad essere molti gli sconfitti, ma erano molti anche quelli che avevano qualche dubbio sulla genuinità dell’operazione. Chi poté esaminare il “Turco” non fu però in grado di rinvenire alcun trucco.
Com’era prevedibile, si diffusero allora voci inquietanti, secondo le quali il macchinario o addirittura lo stesso autore sarebbero stati posseduti dal diavolo o da uno spirito malvagio.
Dopo la morte del suo inventore, la macchina passò di mano in mano, finché fu venduta al Principe Eugenio de Beauharnais, per una somma molto elevata. Sfortunatamente, il principe rimase assai deluso del funzionamento dell’automa e così pretese tutti i suoi soldi indietro.
“Il giocatore di scacchi” in realtà non era affatto una meravigliosa opera tecnologica: era infatti un pupazzo mosso da un uomo esilissimo e al tempo stesso abilissimo nel gioco degli scacchi, che si nascondeva sotto alla scacchiera e poteva seguire lo spostamento delle pedine grazie ad alcuni magneti posizionati in corrispondenza della scacchiera all’interno del cassone, e muovendo il braccio del fantoccio.

L’automa passò di nuovo di mano in mano e giunse negli Stati Uniti, ma anche qui l’inganno fu scoperto. Il Turco e il suo tranello furono smascherati davanti al grande pubblico nel 1836, quando Edgar Allan Poe scrisse un articolo in cui svelava il trucco.
Il Turco, “esibitosi” per qualche tempo a Cuba, tornò negli USA, e venne esposto in un museo a Philadelfia, dove purtroppo però fu bruciato nel grande incendio del 1854.
Sebbene si trattasse di una truffa, è un peccato che “Il Turco” sia andato perduto. Non era un vero robot, ma pur trattandosi di un inganno a modo suo ha fatto la storia della robotica e di quei tentativi – veri o falsi – che hanno portato l’uomo a sognare un mondo futuro fatto di macchine umanoidi.